Resistere per la difesa dello "Stato di diritto" - Pavia, 25 aprile 2007
È inevitabile che, con il passare degli anni, sempre più spesso le persone invitate in questa piazza dal nostro sindaco e dal competente Comitato cittadino (che ringrazio per l’invito, considerandolo un grande onore personale) a celebrare la ricorrenza del 25 aprile appartengano ad una generazione che non ha vissuto in prima persona gli anni della seconda guerra mondiale e della Resistenza contro il regime fascista e contro l’occupazione nazista.
Di qui, come notava già l’anno scorso Ernesto Bettinelli, la difficoltà di chi deve parlare di cose di cui non ha avuto esperienza personale, ma che ha conosciuto soltanto attraverso i libri, i giornali dell’epoca, i documentari filmati, i racconti dei partigiani incontrati nel corso degli anni. Basti pensare, per fare un esempio noto a tutti, alla tensione ideale ed alla commozione che ci ha saputo comunicare due anni fa – proprio da questo microfono – l’avvocato Clemente Ferrario, con la sua rievocazione forte e fortemente appassionata di fatti e di personaggi, di episodi di eroismo e di momenti drammatici da lui personalmente conosciuti e vissuti nel corso della sua militanza partigiana. Si tratta, evidentemente, di un patrimonio di ricordi e di emozioni che può essere trasmesso in presa diretta solo da chi – essendo vissuto in una certa epoca, ed avendo fatto determinate scelte – ha avuto la ventura di essere protagonista di una stagione irripetibile per la rinascita democratica del nostro Paese. Gli altri, possono parlarne soltanto di seconda mano.
Così capita anche a me, che pure conservo ancora stranamente nitido – negli occhi infantili di allora – il ricordo dei soldati tedeschi ormai disarmati, che nei giorni immediatamente successivi al 25 aprile 1945 risalivano Strada Nuova per essere condotti al Castello, e diversi di loro guardavano verso l’alto gridando «non sparare» (io li osservavo dalla finestra, in braccio ai miei genitori, poco lontano di qui, nella casa in cui sono nato, a fianco del Teatro Fraschini). Ma questo è l’unico ricordo che conservo di quei giorni. Il resto l’avrei appreso dopo, leggendo voracemente e cercando di capire, anche di fronte ai primi sussulti revisionistici ed alle prime polemiche sulla «Resistenza tradita», soprattutto negli anni del liceo.
Ciò non toglie, tuttavia, che quei venti mesi di storia (dal settembre 1943 all’aprile 1945) in cui si concentra, in Italia, e soprattutto qui nell’Italia settentrionale, la vicenda della Resistenza, possano e debbano essere ben presenti, anche oggi, ad oltre sessanta anni, a tutti gli italiani, e specialmente ai più giovani.
Questo vale però non solo per la storia di quei giorni, ma anche, ed a maggior ragione, per i valori che costituirono la più vigorosa spinta ideale della lotta per la Liberazione: perché essi rappresentavano il grande «sogno» comune ai molti (uomini e donne; intellettuali, professionisti e lavoratori; anziani, giovani e giovanissimi) che decisero di diventare partigiani, operando nelle città, nelle campagne, o scegliendo la via della montagna. Ed alla base di queste scelte c’era una grande idea, per la quale era giusto battersi, anche a rischio della vita: l’idea della costruzione di una società più giusta; l’idea del recupero dei valori di libertà, di eguaglianza e di democrazia che la dittatura fascista aveva tradito. E, naturalmente, l’idea che per raggiungere questi obiettivi bisognasse anzitutto – a fianco degli eserciti anglo-americani –liberare il territorio nazionale dalle truppe naziste che ancora l’occupavano, tra l’altro fruendo della collaborazione (talvolta perfino più odiosa) degli italiani che avevano aderito alla repubblica fascista di Salò.
Quanto poi a questi ultimi – fatta salva ormai l’umana pietà per quanti sono morti, magari giovani motivati da sentimenti anche apprezzabili di fede in ciò in cui avevano creduto (quei «fratelli italiani» che Luchino Dal Verme definiva «illusi» e «ingenui», distinguendoli dai «traditori») – vorrei dire con chiarezza che bisogna assolutamente evitare di confondere e di livellare nel lassismo della memoria le diverse posizioni di fondo. Perché c’era chi stava dalla parte giusta e chi stava dalla parte sbagliata, e questa è una differenza obiettiva (direi storica e filosofica, prima ancora che politica) che non potrà mai essere dimenticata.
Tornando al tema del ripristino nel nostro Paese dei valori di libertà, di eguaglianza e di democrazia mortificati dal regime fascista, basta leggere quel prezioso volume che raccoglie le «Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana» (un volume che raccomando a chi ancora non lo conoscesse, una vera miniera di sentimenti patriottici genuini, intensi e composti, mai disperati) per capire come proprio questa fosse la grande idea-forza, la grande prospettiva, in nome della quale chi stava per essere ucciso, poco prima che la condanna venisse eseguita, ognuno a modo suo, spiegava ai suoi cari le proprie scelte, esprimendo la consapevolezza che per una tale idea valesse la pena anche di morire. Mi piace richiamare, per tutti, le ultime parole scritte da Duccio Galimberti, giovane avvocato di Cuneo, comandante partigiano di GL, medaglia d’oro al valor militare, prima di essere fucilato tra Cuneo e Torino il 1° dicembre 1944: «Ho agito a fin di bene e per un’idea. Per questo sono sereno e dovete esserlo anche voi». Due righe soltanto, ma c’è dentro tutto. E chi vuol capire, capisce.
Ecco, noi siamo oggi qui riuniti, ancora una volta, per riflettere e per aiutarci a capire. È una festa, e deve essere una festa di tutti (come è giusto che sia, perché si celebra una pagina di riscatto e di rinascita per il nostro Paese). Tuttavia è una festa particolare, perché non possiamo lasciarci alle spalle il ricordo di quanti hanno sofferto e sono morti per consentire a noi, da allora ad oggi, di vivere serenamente, in pace, in una moderna democrazia, inserita con grande dignità nel contesto dell’Unione europea. Perché non possiamo dimenticare che questi 60 anni di pace, questo riconquistato prestigio del nostro Paese, lo stesso ruolo internazionale che esso ha potuto svolgere nella costruzione dell’Europa unita, lo dobbiamo anche al sacrificio di quelli che hanno lottato e sono caduti per propiziare la giornata della Liberazione.
Anche Pavia ha avuto i suoi eroi ed i suoi martiri, i cui nomi ben conosciamo (dai giovanissimi studenti Jacopo Dentici ed Aldo Vespa ad Antonio Scapolla, da Giovanni Bargiggia a Luigi Brusaioli, da Piero Capitelli a Galileo Vercesi, per dirne soltanto alcuni). E tra questi mi piace ricordare qui – come pavese d’adozione, davanti alla sede della Facoltà di giurisprudenza che lo vide laureato, e non lontano dal Collegio Ghislieri che lo ebbe per troppo breve tempo giovane rettore – la figura di Teresio Olivelli, deportato nel lager di Flossenbürg (insieme, tra gli altri, ai nostri Ferruccio Belli ed Enrico Magenes) e poi picchiato a morte nel lager di Hersbrück per aver soccorso un altro deportato: medaglia d’oro alla memoria, animatore instancabile dell’attività partigiana nel triangolo Milano-Brescia-Pavia, fondatore del famoso foglio clandestino “Il ribelle” (da tempo introvabile, ma oggi ripubblicato in una bella edizione anastatica), ed autore della splendida «preghiera del ribelle»: cioè «di noi ribelli per amore». Una preghiera rivolta a Dio nel pieno dramma della lotta di Liberazione, ricca di espressioni di forte intensità (dacci «la forza della ribellione», «facci liberi e intensi», «facci limpidi e diritti», «nella tortura serra le nostre labbra») e culminata in un pensiero d’amore per la Patria invasa e lacerata («rendi nel dolore all’Italia una vita generosa e severa»).
Olivelli era un cristiano convinto, di forte passione morale (era stato fascista negli anni giovanili, ma aveva presto ripudiato il fascismo, avendone conosciuto i soprusi e le iniquità), e aveva dimostrato il suo spirito generoso anche nell’atteggiamento di carità totale e dimentica di sé con cui fino alla fine aveva sempre assistito i suoi compagni di prigionia nei campi nazisti. Ma non occorreva necessariamente essere cristiani – non sono il primo a dirlo – per affermare il carattere religioso e etico, ancor prima che sociale e politico, della Resistenza. Se religione vuol dire (al di là della appartenenza ad una confessione religiosa determinata) rigore di vita, impegno civile per i valori assoluti, coerenza tra il pensiero e l’azione, la Resistenza può essere ben a ragione annoverata tra i «momenti della storia religiosa d’Italia» (R. Pettazzoni). Ovunque si consuma un sacrificio per il bene esclusivo degli altri, in nome di quella legge morale che «va attuata come sacrificio perché serva da esempio» (sono parole di Jacopo Dentici); ovunque vi è la disposizione personale a preferire la morte piuttosto che il «tradimento lucroso» di un ideale di giustizia e di libertà, lì si manifesta un atteggiamento religioso, che è stato proprio di molte pagine eroiche (ma anche di consuetudine quotidiana) della Resistenza. Perché lì, com’è stato detto, emerge una sorta di «fede laica» nelle idee e nei valori che «non interferisce nei credenti con la religione tradizionale», mentre «per i non credenti essa è la sola religione» (P. Calamandrei, R. Pettazzoni).
Così è avvenuto anche nel periodo della lotta di Liberazione, quando si trovarono ad agire ed a combattere fianco a fianco credenti e non credenti, uomini e donne di formazione cristiana e di formazione laica, questi ultimi appartenenti alle grandi famiglie culturali della tradizione socialista e comunista, della tradizione liberale, repubblicana ed azionista, e perfino della tradizione monarchica. Tutti accomunati per una singolare convergenza di intenti dall’unico obiettivo di liberare l’Italia dall’occupazione nazifascista e di ripristinare le condizioni minime per la rinascita della democrazia.
Queste diverse anime e queste diverse fedi ideologiche e religiose sono ben presenti (nelle loro varie articolazioni politiche e militari) durante tutto l’arco di tempo della Resistenza; ma sempre in un clima di collaborazione e di reciproca solidarietà (a parte qualche inevitabile frizione, relativa soprattutto a opzioni tattiche), cementate come sono dall’esigenza di fare fronte comune per il raggiungimento dello scopo. Questo è vero, come sostanziale orientamento di tendenza, già nei 45 difficili giorni che separano la caduta del fascismo (25 luglio 1943) dall’armistizio firmato a Cassibile con gli eserciti alleati (reso noto l’8 settembre 1943). Ma l’indirizzo unitario si consolida e si rafforza nel periodo più duro: cioè nei successivi 20 mesi, che trascorsero dallo sbandamento seguìto alle ambiguità del governo Badoglio («la guerra continua») ed agli errori di una dinastia troppo compromessa per risultare credibile, fino ai giorni radiosi della grande insurrezione e della Liberazione (25 aprile 1945). Pensiamo, nell’arco di questi 20 mesi, al dramma, ma anche all’eroismo, di moltissimi uomini delle nostre Forze armate, in Italia e soprattutto all’estero; pensiamo, per esempio, al dramma ed all’eroismo della Divisione Acqui a Cefalonia, dove oggi si recherà il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Ed in questo periodo ebbe sicuramente un ruolo decisivo nell’assicurare la prospettiva comune delle varie anime della Resistenza il Comitato di liberazione nazionale (CNL), che da organo unitario dell’antifascismo militante si trasformò presto in un vero e proprio «organo dell’unità nazionale» (pur con tutte le tensioni, le discussioni ed i necessari compromessi registratisi al suo interno), al quale faceva capo anche l’organizzazione centralizzata delle varie formazioni militari partigiane riunite nel Corpo volontari della libertà.
Pur nella mutata situazione politica, e nonostante il riaffiorare delle tradizionali distinzioni di schieramento partitico, queste diverse anime ideologiche e culturali, che avevano rappresentato la linfa vitale della lotta di Liberazione, continuarono a convivere, nel segno della originaria ispirazione antifascista e democratica, anche nel periodo che va dal 25 aprile 1945 al 2 giugno 1946 (referendum istituzionale ed elezione dell’Assemblea costituente), e seppero ancora collaborare, trovando anzi importanti intese sulle grandi questioni di fondo, nei 18 mesi dei lavori parlamentari per l’elaborazione della Costituzione, entrata in vigore il 1° gennaio 1948.
Si può ben affermare, dunque, che la nostra Carta costituzionale è anche il risultato della convergenza delle diverse anime che erano state alla base della grande spinta ideale, da cui avevano tratto origine e forza il movimento partigiano e la lotta per la Liberazione. E, del resto, nella Costituzione del 1948 (nei suoi princìpi basilari, a cominciare dal principio di eguaglianza e dalla opzione democratica; nella sua 1° parte, dedicata alle libertà fondamentali nonché ai diritti ed ai doveri dei cittadini; nella sua 2° parte, dedicata all’ordinamento della Repubblica, all’equilibrio tra i poteri dello Stato, alle autonomie locali ed infine alle garanzie costituzionali) si ritrova proprio il distillato, ricomposto in armonica veste giuridica, di tutti i più importanti valori, per l’affermazione dei quali migliaia e migliaia di giovani e meno giovani avevano combattuto ed erano morti nell’epopea della Resistenza. Si tratta di una «tavola di valori» destinata a durare, ancora oggi moderna ed attuale, che va difesa contro ogni tentativo di stravolgimento, come pure contro il rischio – latente, e non soltanto teorico – che quei valori possano venire di volta in volta accantonati, manipolati, traditi e perfino capovolti.
Contro questi tentativi e contro questi rischi occorre resistere e reagire, perché questo – della difesa dei valori della Costituzione nata dalla rivolta contro il nazifascismo – è il significato più attuale assunto oggi dagli ideali della Resistenza. E non è difficile dare concretezza a questa affermazione.
Occorre resistere e reagire, anzitutto, contro il venir meno della memoria dei valori di libertà, di eguaglianza e di democrazia per cui i nostri Padri hanno combattuto; contro l’erronea presunzione che questi valori ci siano stati donati una volta per tutte, e non debbano invece essere alimentati e riconquistati ogni giorno.
Occorre resistere e reagire contro la perdita di senso dello Stato, inteso precisamente con riferimento a quello Stato democratico che si è potuto edificare proprio grazie alla lotta di Liberazione; e quindi contro la perdita della consapevolezza che lo Stato siamo noi, che la Repubblica si chiama così perché è «Res Publica»: cioè «cosa di tutti» e, dunque, casa comune di tutti i cittadini.
Occorre resistere e reagire contro l’eclissi del senso della legalità, contro l’offuscamento della «questione morale», contro il diffondersi di una certa squallida abitudine a considerare «nemici», se non addirittura «persecutori», gli organi che, in uno Stato democratico come il nostro, e nel rispetto di tutte le garanzie costituzionali, sono legittimamente preposti a contrastare il delitto e le varie consorterie criminali, assicurando così l’applicazione della legge.
Occorre resistere e reagire contro il comodo limbo di chi non vuole distinguere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto; contro un certo relativismo scettico che sfuma e confonde i confini del lecito dall’illecito, fornendo alibi strumentali e facili coperture alla falsa coscienza di quanti mirano soltanto a fare i propri comodi, e pensano esclusivamente al proprio «particulare».
Occorre resistere e reagire contro la tentazione a scegliere vie traverse od oblique per raggiungere comunque lo scopo; contro l’arrivismo e la corruzione presenti, talora, anche nelle piccole cose; contro la tendenza a non osservare le regole poste nei confronti di tutti e per il bene di tutti; contro le scorciatoie, le furbizie e le meschinità che spesso costellano la vita quotidiana, pubblica e privata; e quindi contro l’immagine opaca e deteriorata di questa società, che rischiamo in tal modo di offrire ai nostri figli.
Occorre, infine, resistere e reagire contro la fuga dalla responsabilità individuale; contro il qualunquismo ancora prevalente in molti settori della convivenza civile, anche tra i giovani; contro i discorsi di chi ritiene che la politica sia comunque una «brutta cosa»; contro il compiacimento egoista di chi vive appagato di sé e dei propri averi; contro l’assenza di solidarietà sociale, e perfino di solidarietà umana verso i deboli e gli emarginati; contro la cecità e l’indifferenza rispetto alle ingiustizie ed alle anomalie ricorrenti pure nella nostra società ipermoderna ed ipertecnologica.
Si potrebbe continuare, ma basta già questo elenco per capire quale sia oggi il significato della Resistenza, o meglio quale sia lo «zoccolo duro» dei valori e degli insegnamenti che la Resistenza ci ha lasciato in eredità (al di là degli errori o degli eccessi che possano essersi verificati in singoli episodi, e che, se accertati, bisogna avere il coraggio di riconoscere). Un’eredità che deve consolidarsi, nell’oscura fatica – e, talvolta, nella sfida – delle scelte quotidiane, giorno dopo giorno. E che deve tramandarsi alle future generazioni. Le quali non avranno probabilmente più l’emozione di ascoltare dal vivo i racconti dei protagonisti della lotta di Liberazione, ma potranno comunque giovarsi del patrimonio di quei valori e di quegli insegnamenti come di una piattaforma imprescindibile per lo sviluppo della vita democratica nel nostro Paese.
Dobbiamo essere consapevoli, infatti, che la lotta per la Liberazione non è stata soltanto una lotta «contro». Certamente essa è stata una lotta «contro» le violenze e le aberrazioni della dittatura fascista, come pure «contro» le angherie e le barbarie perpetrate dalle forze naziste occupanti, spesso con l’apporto decisivo, nelle nostre zone, dei fiancheggiatori repubblichini.
Essa è stata, tuttavia, anche una lotta «per». È stata una lotta «per» il ripristino di una normale dialettica democratica, «per» il recupero dei valori e dei princìpi su cui si fondano le grandi democrazie, e quindi «per» la ricostruzione di uno Stato fondato su quei valori e su quei principi, all’interno del quale non sia mai più necessaria un’altra lotta di Liberazione. Ed è proprio questo il grande lascito della Resistenza, che oggi ritroviamo consolidato – a 62 anni da allora – nella nostra Carta costituzionale, come non dobbiamo stancarci di ripetere.
Perché proprio da lì, da questi valori e da questi principi, ma prima ancora dal sacrificio di quanti hanno lottato, hanno sofferto e sono morti per riconquistarli e per riaffermarli – una volta e per sempre – è germinata quasi miracolosamente, nel giro di poco più di un anno, tra il 2 giugno 1946 ed il 31 dicembre 1947, quella che dal 1° gennaio 1948 è la nostra Costituzione.
Come disse Piero Calamandrei nel 1955, parlando ai giovani di allora a dieci anni dalla Liberazione:
“Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì … col pensiero perché lì è nata la nostra Costituzione”.
*pubblicata in Grevi-Bettinelli-Rossolillo-Ziglioli-Tesoro, 25 aprile. Una memoria consegnata, ed. Ibis, Como-Pavia, 2011, p. 33 ss.