Vivere, studiare e insegnare all’Università di Pavia
Vivere a Pavia, studiare a Pavia, insegnare a Pavia, nel palazzo centrale dell’Università. Per molti un progetto di vita, per altri soltanto un sogno. Per me, che mi ritengo sotto questo aspetto molto fortunato, una realtà. La realtà di un’avventura iniziata più di quaranta anni fa come studente, e proseguita da oltre trenta anni come professore di ruolo (presso la Facoltà di giurisprudenza), dopo qualche anno di insegnamento a Macerata.
Naturalmente nell’arco di questi ultimi decenni non mi sono mancate le occasioni di trasferimento per insegnare presso altri atenei, caratterizzati da dimensioni più grandi di quello pavese, da una popolazione studentesca più numerosa, e situati in alcune delle più importanti città italiane. Tutti elementi che sarebbero potuti risultare molto convincenti (anche perché collegati ad una certa maggior «dignità» ascrivibile a sedi universitarie potenti e celebrate), e che infatti sono apparsi tali a diversi colleghi, i quali hanno considerato l’esperienza pavese come un momento di passaggio nell’itinerario di una carriera destinata a concludersi altrove. Per me, invece, non è stato così. Ho fortemente voluto che non fosse così, resistendo a tentazioni di vario tipo. E sono convinto di aver fatto bene, anche se ovviamente queste non sono valutazioni da farsi in assoluto, ma passano attraverso ben precise scelte, che sono spesso molto personali.
Ci sono alcune cose che Pavia, come sede universitaria, offre ai suoi docenti (ma molte di esse, prima ancora, cono comuni anche ai suoi studenti), e che, se non proprio irripetibili, senza dubbio non si potrebbero ritrovare facilmente in altri atenei. Penso, per quanto mi riguarda, al privilegio di poter disporre di uno studio, poco importa se piccolo, ospitato entro le mura antiche dell’Università, nel cuore della città, magari affacciato su uno dei tanti loggiati che incorniciano, al primo piano, i numerosi cortili quadrangolari tutti tra loro collegati, nei quali si articola l’attuale struttura architettonica, che in varie parti ha conservato le movenze di antichi chiostri.
Penso al piacere, dalla primavera all’autunno, di studiare e scrivere sulla propria scrivania con le finestre aperte, sentendo fragranze di glicini o di magnolie provenienti dai cortili, o i profumi delle vicine campagne, o gli odori del Ticino che scorre non lontano; ma anche avvertendo, senza essere distratti, il brusio degli studenti che si concedono qualche pausa alle ricerche in biblioteca; e talora, nei giorni festivi, registrando il passaggio di intere famigliole di turisti (ivi compreso qualche piccolo futuro studente) in visita ai loggiati dell’Ateneo, che sono di transito pubblico. Qui è immediata la sensazione dell’Università che vive dentro la città, e si alimenta così anche nei docenti, proprio mentre si studia o si scrive, la speranza di poter in tal modo fare qualcosa di utile – ognuno nel campo delle rispettive discipline – per il progresso della società civile, nella quale si è anche fisicamente immersi.
Penso alla fortuna di essere professore della materia che più mi appassiona, all’interno di una Facoltà di media grandezza (come sono pressoché tutte le Facoltà pavesi), dove i docenti si incontrano praticamente ogni giorno, si scambiano idee e discutono delle proprie attività scientifiche, come pure di problemi più generali attinenti alla didattica, al mondo universitario, alle grandi questioni politiche ed istituzionali. Ma penso anche, nel contempo, alla fortuna di avere un numero relativamente limitato di studenti (spesso di primo, e talora di primissimo livello, grazie al reclutamento operato dai collegi universitari su basi di merito), così da poterli conoscere quasi uno per uno, specialmente se frequentanti; così da poter avere con loro colloqui informali, come ideale prosecuzione delle lezioni; così da poterli accompagnare, in quanto laureandi, nelle prime ricerche di qualche impegno. E poi, ancora, penso all’opportunità di coltivare i migliori, indirizzandoli e consigliandoli, sulla base di un rapporto personale ormai consolidato, verso ulteriori prospettive: nelle scuole di specializzazione, nel mondo del lavoro o, talora, nello stesso circuito universitario. Pavia, infatti, è sempre stata in vivaio fecondo di giovani che, una volta assaporato il gusto dello studio, non si accontentano di un diploma di laurea pur brillantemente conseguito.
Penso, infine, alla soddisfazione di lavorare presso una struttura di ricerca (uno degli antichi Istituti, oggi Dipartimenti) ancora operante a misura d’uomo, piuttosto bene organizzata, dove se un docente vuole studiare e produrre ci riesce davvero, perché i presupposti organizzativi ci sono, il personale collabora, gli strumenti non mancano, il contesto ambientale e la stessa atmosfera culturale dei luoghi aiutano la riflessione e propiziano la produzione scientifica. E penso inoltre, per rimanere in argomento, all’opportunità di poter usufruire di biblioteche specialistiche (il che vale non solo per la Facoltà di giurisprudenza, ma anche per le altre Facoltà, soprattutto di tradizione umanistica, nelle quali libri e riviste rimangono strumenti insostituibili di lavoro), situate in locali contigui agli studi, di facile accesso e di vasta dotazione. Biblioteche fondamentali per gli studenti, ma specialmente per gli studiosi, dove non solo si trovano tutti i volumi di recente pubblicazione nel settore di pertinenza, ma si può godere di un patrimonio librario sedimentato nel tempo, arricchito e consolidato grazie all’amore ed alla cura dei predecessori, come tale risalente fino a due secoli addietro, e prima ancora reperibile nei preziosi fondi dell’antica Biblioteca centrale dell’Ateneo.
In questo quadro certamente gioca un ruolo importante anche l’orgoglio del passato, la consapevolezza di studiare e di insegnare in una Università che, soprattutto per quanto riguarda la «Scuola di diritto», risale all’Editto di Lotario dell’anno 825, dove a lungo i professori hanno vantato il titolo di «comites palatini», dove un museo storico ricco di reperti, di strumenti e di documenti attesta le attività di ricerca scientifica sviluppatesi attraverso i secoli nei diversi campi del sapere. Ma anche in un’Università verso la quale da tempo convergono, e continuano a convergere, non ostante la dissennata esplosione del fenomeno degli atenei «sottocasa» (da questo punto di vista, dopo tutto, la situazione non è poi cambiata di molto, specialmente in virtù del sistema dei collegi), non solo i migliori studenti della Lombardia, delle regioni limitrofe e del Canton Ticino, ma anche di molte altre regioni (dalla Puglia alla Calabria alla Sicilia) che sono state nel tempo un tradizionale bacino di attrazione verso le diverse Facoltà pavesi, e spesso hanno tramandato di padre in figlio la tradizione dell’approdo alle nostre aule.
Da tutto ciò deriva un caldo sentimento di affetto, unito ad un forte senso di appartenenza, che ho sempre avvertito rispetto ad ogni altra possibile opzione, e che come me hanno avvertito molti colleghi dell’Ateneo ticinese. Senonché non è soltanto una questione di orgoglio del passato, o di attaccamento alla storia di una sede per le sue caratteristiche comparabile con pochissime altre, in Italia e nel mondo. Certo fa un singolare effetto (specialmente, ma non solo, per un giurista) poter passeggiare sotto i portici dei cortili dell’Ateneo, dove sono le lapidi dei grandi giureconsulti «pavesi» del passato (da Baldo degli Ubaldi a Giason del Maino, da Andrea Alciato a Jacopo Menocchio), alcuni dei quali riprodotti proprio nell’atto di insegnare in aule con cattedra e baldacchino, per questo aspetto non molto diverse da qualche aula ancora in uso. Certo è molto suggestivo immaginare che negli stessi luoghi hanno passeggiato nei secoli decine di migliaia di studenti, tra i quali, per esempio, Carlo Goldoni e Cesare Beccaria, entrambi studenti di giurisprudenza, o grandi maestri come Girolamo Cardano e Lazzaro Spallanzani, Gian Domenico Romagnosi ed Ugo Foscolo (che proprio dalla sua cattedra pavese di Eloquenza, inerente alla Facoltà giuridica, nel 1809 aveva esortato gli italiani «alle storie»). Come pure è molto suggestivo ricordare che, poco lontano dalle nostre attuali aule di lezioni, e dalle sale di studio, Alessandro Volta faceva gli esperimenti che gli consentirono l’invenzione della pila, mentre Camillo Golgi e Carlo Forlanini svolgevano le ricerche che li avrebbero condotti a risultati fondamentali per il progresso della medicina.
Tutto ciò è vero, e sicuramente pesa molto sulle scelte di vita di quanti hanno deciso, una volta raggiunta la cattedra pavese, di non lasciarla per altra destinazione. Ma forse tutto ciò non sarebbe sufficiente, se non vi si accompagnasse una constatazione di fondo, che riguarda la sostanza del vivere a Pavia, oggi, come professore della locale Università. E la sostanza è che a Pavia si sta bene, si studia bene, e si possono esercitare bene le funzioni, didattica e scientifica, tipiche di un vero docente universitario. Se uno desidera, come è capitato a me, trascorrere la (maggior parte della) sua vita ad approfondire la disciplina da lui prediletta, a svolgere ricerche in quell’ambito, ad affrontare i problemi aperti non solo sul piano teorico (ciò che, per un giurista, significa anche poter influire sulle scelte di politica legislativa, e quindi su eventuali riforme all’interno dell’ordinamento vigente); se uno coltiva l’ambizione, dopo aver studiato ed elaborato idee, di trasmettere ai più giovani il proprio patrimonio di cognizioni e di esperienze, ed eventualmente anche di indirizzarli a fare le proprie scelte per il futuro, Pavia è la sede adatta.
Si vive tranquilli, nella serenità di una città piccola e dall’aspetto godibile (con le sue piazzette e le stradine acciottolate, i suoi viali alberati, le sue torri rosse al tramonto, il suo castello e le sue chiese), a mezz’ora di viaggio da Milano, dove si può trovare tutto ciò che manca a Pavia, ma senza dover sopportare i disagi della metropoli. Le risorse economiche dell’Ateneo non sono floride (un po’ come dappertutto, nelle sedi statali), ma sono sufficienti affinché non manchi nulla di ciò che serve per studiare ed insegnare con profitto; e comunque consentono di organizzare dottorati di ricerca, nonché di ospitare frequenti convegni, seminari ed incontri tra studiosi. Insomma, una città giusta, che sembra fatta apposta (e così è stato, nei secoli) per potervi studiare ed insegnare. In altre parole, una città a … dimensione di professore, oltreché di studente, dato che per vari aspetti qui i due piani tendono a sovrapporsi. Forse soprattutto per ciò chi ha fatto questa esperienza di studio e di insegnamento, e concepisce la vita (la sua vita) in un certo modo, riesce a non cedere ad offerte esterne, per quanto variamente vantaggiose, ed è contento di rimanere per sempre professore presso l’Università di Pavia.
(V. Grevi, L’Osservatore Romano, 22 aprile 2007)